Tecnologie perdute
Posted on 22/08/2022 in amarcord
Ogni tanto salta fuori la storia che gli antichi Egizi avrebbero costruito le Piramidi con chi sa quale mezzo alieno e tecnologia perduta, tant'è che oggi sarebbe impossibile ricostruirle uguali.
La storia ha più di un fondo di verità: l'ingrediente principale, che oggi non è disponibile sulla stessa vasta scala dei Faraoni, era lo Sprezzo della Vita Umana (tm), che - come ben sa chi ha visto i filmati degli operai cinesi che costruiscono grattacieli saltando da putrella a putrella senza imbragature a trecento metri d'altezza - consente risparmi economici colossali.
Oggi, fra normative, burocrazia, sindacati e dispositivi di protezione, è vero, non c'è da discutere: non ce la faremmo mai, a ricostruire le piramidi - e questo, anche se non venisse il solito comitato di cittadini a strillare che le piramidi causano il cancro e a bloccare tutto con un ricorso al TAR.
Questa però è la versione, diciamo così, ufficiale. E' la verità, intendiamoci, oh, sì; solo, non è tutta la verità.
Io non so con precisione QUALE tecnica abbiano usato gli antichi Egizi. Ma so che esistono tecniche che sfidano la scienza e sconfinano nella magia, e lo so perché l'ho visto.
Ci sono persone cui non avrei dato un soldo e - dall'alto di una immeritata laurea - avrei ritenuto capaci a malapena di fare una "O" col bicchiere, depositarie - su questo non mi sono ancora chiarito - di saggezza millenaria o della magia di Harry Potter.
La prima volta che incontrai una di queste persone ero a casa del mio amico Stefano, talmente tanto tempo fa che c'era il progetto "Socrate" (mi pare) per portare la fibra ottica in casa alla gente. Dopo tanti anni non sono più ben sicuro, ma non escludo che esistesse ancora l'Olivetti.
E insomma eravamo a casa di Stefano a studiare - mi pare - Algebra Lineare, e suona il campanello. Aperta la porta, ci si para davanti l'anello di congiunzione fra l'uomo di Neandertal e il cinghiale ungherese: per i lettori del "Vernacoliere", era una via di mezzo fra "Alvaro il Laido" e il Porchettaro Notturno. Avrà avuto cinquant'anni, indossava un cappellino fatto con la carta di giornale, e, fortunatamente per lui e sfortunatamente per noi, era estate e aveva indosso una canottiera con le ascelle esposte all'atmosfera.
Era lì per mettere la "scatola nel muro" (parole sue). Poi sarebbero venuti i tecnici a "fare il buco" e "mettere i fili". Dove volevamo la scatola?
Stefano, respirando con la bocca, gli passa accanto e indica un punto in alto al lato della porta. "Lì", ansima.
L'uomo-verro si volta, fissa gli occhietti porcini sul muro, si gratta il cappello, si avvicina. Tamburella con le dita nel punto indicato, poi uno o due centimetri sopra, poi un po' sotto, poi un po' a lato. "Hm" grugnisce. "Torno subito," dice, va fuori, pesca nel cassone di un Apecar un giornale impiastricciato, ritorna e mette il giornale in terra. Poi, rapido come il fulmine, estrae dalla tasca posteriore una mazzetta da cinque chili e dà un paio di colpi sul muro; dopo di che, con la mano fa una specie di balletto che non riesco a seguire, picchiando sul muro con il manico della mazzetta, poi con la testa di ferro, cinque o sei volte.
Volano calcinacci per ogni dove, alcuni anche sul giornale subito sotto, e dopo non più di venti secondi questa specie di gorilla spazzola l'area interessata con le dita, rinfodera la mazzetta ed estrae dai braconi una scatola di cartone.
Nel muro è visibile un foro a forma di parallelepipedo, NON corrispondente ai mattoni, esattamente nel punto che aveva indicato Stefano. Dalla scatola esce una scatolina più piccola di plastica arancione, che il gorilla infila delicatamente nello scasso, dove entra esattamente, arrivando precisamente a forzare quando è a filo muro.
Dopo aver raccattato da terra mascella e palle degli occhi, passammo il resto del pomeriggio a ripeterci a vicenda che quello che avevamo visto era fisicamente impossibile, e a fare arditi paralleli con i tagliatori di diamanti di Amsterdam, mentre dal muro la scatolotta ci guardava beffarda.
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La seconda volta, fu in casa mia (non quella in zona Viale Mazzini), subito dopo che mi ci ero installato e si era avviata la ristrutturazione. Correva l'anno 2000 e dei lavori edili era stato incaricato un certo Santo Pinello. C'erano da fare tra i molti anche dei lavori idraulici, per sdoppiare il bagno.
Com'è, come non è, l'idraulico trovò un attacco per le acque chiare e uno per le acque scure, e collegò lavandino e doccia al primo e il WC al secondo; avrei fatto lo stesso anch'io.
Una settimana più tardi la signora del piano di sotto ci chiama inorridita: sulla parete della sua cucina si sta allargando una macchia di umido diolèvati. Pinello conclude che lì bisogna aprire il muro, e così viene fatto; si scopre che il tubo delle acque chiare passa di lì dietro, e lì dietro è stato accecato cinquant'anni fa, e ora il peso della colonna d'acqua sta facendo saltare l'accecamento. Quello, comunque, NON PUO' essere il vero tubo delle acque chiare. Drenato il tubo e riparato il muro, rimane il problema di rifare gli attacchi sul tubo giusto.
Che non si trova.
Convocato l'amministratore, e il precedente amministratore che è la memoria storica del condominio, viene fuori l'orrenda verità: quel tubo delle acque chiare saltò nel lontano 1955, e ne fu installato un altro in una traccia sull'esterno della parete portante che dà sulla strada.
Per agganciarsi a quel tubo, in altre parole, è necessario mettere tre piani di impalcature all'esterno, fare un buco in sessanta centimetri di massetto di fiume, e su quel lato è suolo pubblico con relative tasse comunali.
Agganciare il secondo bagno ai tubi del primo è impossibile per una questione blinda la sbiriguda come fosse di pendenza per lo scarico, antani. Una possibilità è sopraelevare il secondo bagno, ma a quel punto il soffitto prematura la supercazzola di abitabilità con fuochi fatui. Oppure si può installare una pompa di rimando con sensore automatico tipo autogrill ceceno, proprio la soluzione che chiunque vorrebbe per casa propria.
Mentre siamo nel neo-secondo-bagno e io mi strappo i capelli e maledico il destino cinico e baro, l'apprendista di Pinello - un ragazzotto sui diciott'anni con l'aria malnutrita, che credevo sordomuto - gratta rispettosamente l'indice sulla manica del capo. "Padrone" (giuro, disse così: "Padrone") "forse si può arrivare da lì", e indica il muro. "La braga (?) è là dietro", sussurra.
Pinello lo squadra. "Te la senti tu?" "Padrone sì" mormora quello. Al che, con fare deciso, Pinello si rivolge a me e all'idraulico: "Possiamo fare un foro da questo lato, inclinato, per raggiungere la braga da dentro. Senza passare da fuori, senza impalcature."
Idraulico e amministratore, che hanno capito (io no), lo guardano sgranando gli occhi. "Quello è un muro portante" dice l'idraulico. "Massetto di fiume" rincara l'amministratore. "Sotto quel cemento, lì c'è un dito di cemento, e poi mezzo metro di pietre" indica l'anziano jettatore.
Pinello guarda il giovanotto come a chiedergli se ha capito, il giovanotto lo guarda serio e fa di sì con la testa.
"Bene, cominciamo" dice Pinello, e ci fa segno di uscire. Dopo di che va in cucina (in quella che sarebbe stata la cucina), prende quattro o cinque secchi di plastica vuoti e una fotoelettrica, e li porta in bagno. Nel mentre, il giovanotto inizia a picchiettare sul muro con uno scalpello di una trentina di centimetri e una mazzetta da un paio di chili. Toc. Toc. Tac. Toc. Stunk. A ogni colpo, qualche granello di polvere fluttua nell'aria.
Dopo essermi accomiatato da idraulico e amministratore, Pinello dice di avere da fare altrove e che lascerà lì il ragazzo fino alle sei. "Ma io devo essere a [omissis] tra poco" protesto io disperato. "E allora? Chiude la porta con lui dentro, basta che torni per le sei."
Torno dal giovanotto, che ha intaccato circa due millimetri quadri di muro e scalpella via con aria serena. Dopo un conciliabolo a monosillabi gli lascio due bottiglie d'acqua e un bicchiere di plastica e lo abbandono lì, rimuginando disperato su metodi più pratici (e non rovinosamente costosi) di arrivare a questa stramaledettissima "braga".
Alle cinque, cioè dopo un tre ore e mezza circa, rientro e vado nel bagno con un comprensibile muso lungo.
Avevo lasciato un giovanotto sui diciott'anni vestito da lavoro; ritrovo una specie di vecchio Zio Tom bianco, coperto di polvere da capo a piedi passando per il torso nudo e incrostato di polvere. In terra, uno strato di un dito di polvere di pietra. Dietro di lui, quattro secchi di plastica pieni stracolmi di frammenti.
E nel muro, il mezzo centimetro scavato mentre io stavo a guardare, tutto sbocconcellato e approssimativo; e dopo quel mezzo centimetro, quant'è vero Iddio, c'è un foro: un tunnel perfettamente squadrato di una trentina di centimetri di lato, che affonda in sessanta centimetri di pietra di fiume. La fotoelettrica illumina il foro e, in fondo, si vedono tre tubi verticali di diversi diametri immersi in quello che suppongo sia il gesso o l'intonaco della facciata esterna.
"Come. Cazzo. Hai. Fatto?" chiedo. Il giovanotto per tutta risposta alza le mani e mi mostra una mazzetta da due chili e uno scalpello che non arriva neanche a metà della profondità di quel buco; ma tanto è il sollievo che decido che, in fondo, se non me lo vuole dire, non sono fatti miei.
Ma mi è sempre rimasta nella fantasia la scena di lui che ascolta la porta che si chiude e, sicuro di essere solo e senza testimoni, si volta verso la parete, sorride, tende le mani e mormora "Ondoher yaltúrë" (o magari "Rastha m'taal los mi aven" o "Expecto Bucaccium!").